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Dematerializzazione e organizzazione dati in sanità

Nell’immensa quantità di dati presenti all’interno del sistema IT di una struttura sanitaria si nasconde un patrimonio di informazioni dalle quali ricavare potenzialmente una significativa svolta in termini di efficienza e costi di gestione. Individuarle e riuscire a estrarle è però decisamente complesso. Inoltre, ricavare un dato fruibile direttamente dall’utente finale è il passaggio finale di un percorso lungo e tortuoso.

In pratica, tutto ruota intorno alla qualità del dato: riconoscere cioè cosa è utile e cosa si può trascurare. Classificare, raggruppare, interpretare sono tutte operazioni delicate, per le quali servono competenze e strumenti all’altezza e soprattutto dove il margine di errore non è in discussione, quando in gioco c’è la salute di una persona.

«In ogni ospedale c’è un patrimonio di dati», conferma Anna Roli, direttore S.C. Sistema Qualità, Formazione e Protezione Dati della Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «Nel momento in cui riusciamo a dematerializzarli e raccoglierli dai vari repository, hanno una potenzialità informativa enorme. Non tanto per il dato in sé, quanto per la loro correlazione».

I dati non sono tutti uguali

Requisito fondamentale affinché un dato torni utile in fase di analitica è la sua qualità. La correlazione dato-informazione è quindi tutt’altro che scontata.

«Bisogna prima di tutto strutturare i dati all’interno delle soluzioni informatiche adottate», prosegue Roli. «Per esempio, in sanità si parla tanto di cartella clinica digitale e noi stessi abbiamo concluso da poco un passaggio importante in tal senso. In fase di progettazione è stato eseguito un gran lavoro affinché tutti i moduli avessero una strutturazione all’origine, così da poter essere codificati e raccolti su larga scala».

Per scongiurare il pericolo di un afflusso indiscriminato di dati sui server aziendali, è quindi indispensabile classificare il dato fin dal momento in cui viene generato, per indirizzarlo nei relativi flussi al servizio delle funzioni cliniche o di ricerca. Più complicato è, invece, il discorso in presenza di dati già esistenti. La mancanza di una classificazione uniforme al momento limita le capacità d’interrogazione correlata, pur lasciando spazio ad accessi circoscritti al proprio ambito. Per mettersi in pari, in questi casi è necessario un ulteriore lavoro d’integrazione da sviluppare in parallelo.

Anna Roli, direttore S.C. Sistema Qualità, Formazione e Protezione Dati della Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori di Milano

La qualità del dato inizia quindi prima che venga effettivamente generato e non riguarda solo il personale tecnico. Seguendo un percorso simile a quello capace di portare a regime la cartella clinica digitale in meno di due anni, l’Istituto dei Tumori è partito da un confronto su larga scala.

«La grossa competenza è in capo a chi i dati li inserisce, nel nostro caso il personale clinico e amministrativo», spiega Roli. «Non è semplice come può sembrare, perché parliamo di seguire una rigida codifica internazionale».

Senza nulla voler togliere all’importanza della componente soggettiva nella valutazione del paziente, in una cartella clinica digitale è necessario inserire anche informazioni riferite a scale di valutazione sui rischi come per esempio malnutrizione, anestesia o lesioni da decubito, ma anche alla più ordinaria condizione di salute complessiva. Tutto, rigorosamente seguendo parametri standard a livello internazionale, trasformabili in dati strutturati.

Certamente, una fatica in più per chi è chiamato a inserire i dati. Da lì in avanti però, con una serie di benefici. «Possiamo offrire interrogazioni su larga scala. Per esempio, indici del dolore utili a conoscere la situazione complessiva dei pazienti ricoverati, capire quanti accusino dolori entro i limiti di accettabilità. Questo permette di migliorare la gestione degli antidolorifici, se il consumo è proporzionale alle necessità. Informazioni utili anche in fase di analisi sull’impiego dei farmaci e alla farmacologia stessa».

Il bisogno di uniformità

Il dato come indicatore di prestazione è una risorsa particolarmente preziosa per una struttura sanitaria, a condizione però di una qualità senza compromessi. Il personale clinico deve poter collocare correttamente diagnosi, complicanze, dimissioni e valutazioni senza incertezze, pena il rischio di inserire nel sistema elementi falsati o incompleti. Prima ancora della formazione, serve molto lavoro sugli strumenti messi a disposizione, valutando ogni inserimento con una serie di incroci finalizzati a confermarne la validità e quindi la qualità.

«Quando parliamo di informazioni diffuse, la strutturazione fa sempre riferimento a codifiche internazionali. Nel momento in cui si prevede l’inserimento si tratta semplicemente di allinearsi, così da mettere chiunque altro in condizione di lavorarci. A questi, però, affianchiamo dizionari personalizzati per classificare elementi a uso interno».

La procedura lineare seguita e i risultati raggiunti non sono necessariamente sinonimo di un percorso netto. Progetti del genere, con obiettivi ambiziosi non possono fare a meno di affrontare ostacoli di varia natura. «La formazione del personale è un elemento essenziale, dove la vera difficoltà non è la disponibilità, in realtà sempre presente, quanto invece conciliare orari dei turni con le lezioni».

Successivamente, in fase operativa, la responsabilità ricade invece maggiormente sul personale IT. L’interfaccia del sistema di inserimento dati deve essere progettata in modo che il medico non debba perdere tempo a cercare codici, ma venga indirizzato un automatico verso la corretta compilazione.

Qua emerge tutta l’utilità di un lavoro di gruppo preliminare, come seguito con la cartella clinica digitale. «Dalla raccolta sistematica di tutto ciò contenuto sulle schede cartacee si sono selezionati i dati utili tenendo come riferimento i dizionari con la nomenclatura standard. Mantenendo sempre attenzione anche a non interferire con la priorità di assistenza al paziente. Grazie a questo lavoro sono stati individuati i campi obbligatori da inserire».

I primi bilanci

Per quanto rigorosa sia una procedura, la piena conferma della sua validità può arrivare solo a posteriori. Il lavoro appena agli inizi si basa ancora in prevalenza su ragionamenti e supposizioni.

«Siamo nella fase in cui la cartella clinica si è diffusa a reparti e ambulatori. Ora, deve iniziare il lavoro di valutazione della qualità e questo è compito nostro. Dobbiamo incrociare le informazioni raccolte nei vari sistemi definendo degli indicatori. Un’operazione che in futuro vorremmo rendere automatica».

I primi risultati sono comunque incoraggianti, al punto da volersi già spingere oltre. Con l’inserimento graduale di nuovi campi nella cartella clinica digitale si potranno approfondire alcuni elementi di analisi. Per esempio, nel trattamento del tumore alla mammella, l’incrocio dei dati ricavati dalle schede di dimissione con query personalizzate impostate sul gestionale permettono di analizzare i movimenti mensili nella struttura, individuare cambiamenti o riconoscere anche eventuali codifiche sbagliate. Oppure, più un generale, estrarre dati riferiti a una specifica patologia per calcolare i flussi dei pazienti e intervenire sull’organizzazione.

D’altra parte, per mantenere la qualità inalterata nel tempo, il controllo non deve mai allentarsi. Quanto presente nella SDO (Scheda di Dimissione Ospedaliera) deve coincidere con il percorso seguito dal paziente. Un’eventuale anomalia può essere segnalata da indicatori, come un calo nelle infezioni post-chirurgiche. Un apparente miglioramento può essere in realtà conseguenza di una mancata segnalazione da parte del paziente. Se con i supporti cartacei la verifica era praticamente impossibile, ricostruendo il percorso tracciato in digitale l’obiettivo diventa possibile.

Un altro requisito importante è la razionalizzazione dell’interfaccia. Per quanto possa sembrare una contraddizione, completezza e qualità delle informazioni si ottengono anche riducendo all’essenziale i dati da inserire.

«Tutti i dati da inserire sono stati individuati come rilevanti, quindi non c’è margine di valutazione personale e nel caso di recupero del dato, una mancata complicazione viene rilevata e segnalata. D’altra parte, i valori richiesti sono quelli classificati come indispensabili al lavoro dei clinici. Quindi, in realtà il rischio di omissione è veramente minimo».

In ogni caso, è previsto un minimo margine temporale. Durante le emergenze, o in mancanza fisica dell’informazione sul momento, può risultare impossibile inserire un dato. L’operazione può essere rimandata, ma non oltre la chiusura della pratica.

Obiettivo big data

Con un livello qualitativo dei dati ormai abbastanza elevato da portare benefici all’organizzazione interna, lo sguardo dell’Istituto dei Tumori inizia a guardare più lontano.

«In prospettiva, ci piacerebbe sfruttare meglio queste informazioni in ottica big data», riflette Roli. «Non tanto come Istituto quanto in una visuale più estesa, a livello regionale se non addirittura nazionale».

Impresa certamente non facile e non solo per i pur grossi ostacoli legati alla protezione dei dati o alla diffusione degli stringenti standard di qualità del dato raggiunti internamente. Se in Lombardia esiste già una certa uniformità, su scala nazionale risalire all’esatta sorgente di un dato e ricostruirne l’affidabilità per capire se e come possano essere comparati è un aspetto tutt’altro che scontato.

ìIn ogni caso, bisogna lavorare molto sull’interoperabilità. Ogni volta che si decide di procedere con un progetto di dematerializzazione, prima di inserire un’informazione in un fascicolo elettronico dobbiamo essere sicuri di poterla correlare.

Tra i problemi da superare in termini di uniformità territoriale, c’è anche la riservatezza. Se la Lombardia è tra le Regioni già in grado di rendere anonimi i dati riferiti al paziente, da altre parti è ancora necessario il ricorso al consenso esplicito.

La procedura tuttavia è già chiara. Dalle singole strutture sanitarie locali, i dati confluiscono in un data warehouse regionale, dal quale estrarre dati da confrontare a loro volta con quelli di altre Regioni. Gli obiettivi più ambiziosi sono verifica della qualità assistenziale e la medicina predittiva oppure, più semplicemente, un bilancio delle campagne di screening e prevenzione o indicazioni utili su nuovi bisogni in tema di salute e patologie emergenti. Traguardi certamente ambiziosi, dove però tutto dipende dalla capacità di trattare elementi di base piuttosto semplici.

«Il lavoro ruota intorno alla capacità di sfruttare un’informazione nella cartella clinica digitale. Un dato associato a un preciso indice, senza margine di dubbio, di natura sia clinica sia amministrativa. Da qui si può arrivare a una classificazione diffusa, utile tra l’altro per capire meglio come impiegare le risorse disponibili».

Se al momento il riferimento principale è alla cartella clinica, il punto d’arrivo è la piena integrazione con tutte le altre tracce digitali lasciate dal paziente durante l’accesso al sistema sanitario.

«Si possono affiancare i fascicoli, gli esiti prodotti da uno strumento e i passaggi amministrativi», conclude Roli. «Possiamo valutare un percorso diagnostico e terapeutico ed è quanto noi stiamo già iniziando a sperimentare in Senologia. Se riusciamo spingerci oltre, ad aggiungere altri dati, possiamo verificare la qualità della vita, valutare particolari terapie. Ricostruire tutta la storia digitale di un paziente è sicuramente una visione realistica per il futuro».

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