L’evoluzione del ruolo del paziente e lo sviluppo della tecnologia sono i grandi motori di cambiamento della Sanità moderna. Il mondo dell’healthcare è proteso verso il digitale, che promette di rendere più accessibili e sicure le cure.
Ne parliamo con Giuseppe Recchia, farmacologo, consigliere e vicepresidente di Fondazione Smith Kline, importante riferimento per il dibattito scientifico di tutti gli stakeholder coinvolti nel processo di innovazione della tecnologia in atto in Sanità.
Nel 2018 la Fondazione Smith Kline ha realizzato due studi dai quali emerge con forza il concetto di terapie digitali. Di cosa si tratta?
Le terapie digitali, o digital therapeutics in inglese, rappresentano un’evoluzione della terapia medica, resa possibile dallo sviluppo delle nuove tecnologie digitali.
Verso la fine del XIX secolo vi è stato lo sviluppo delle terapie farmacologiche basate sulla chimica. Nel 1982 con l’insulina ricombinante nasceva l’era delle terapie biotecnologiche, mentre il decennio scorso ha visto l’ingresso nella terapia delle Atmp – advance therapy medicinal products – ovvero le terapie cellulari e geniche.
Nel 2017 la Fda ha approvato negli Usa la prima terapia digitale, ovvero un intervento terapeutico che utilizza il software quale principio attivo della terapia stessa per produrre un beneficio clinicamente rilevante. Si tratta di sistemi sviluppati attraverso la sperimentazione clinica controllata e pertanto secondo il metodo della randomizzazione e del confronto con un’alternativa terapeutica, con l’obiettivo di dimostrare l’efficacia e la tollerabilità. Sono autorizzati da enti regolatori sulla base della documentazione prodotta nello sviluppo clinico, prescritti da un medico curante e rimborsabili da sistemi sanitari o assicurazioni.
Perché l’innovazione si traduca in terapie efficaci, deve essere introdotta nella pratica medica ed assistenziale. A che punto siamo nel nostro Paese?
Al punto zero o poco dopo, non solo in Italia ma in tutti i Paesi europei. In effetti l’introduzione nella pratica medica (sia a livello di linee guida terapeutiche che della pratica quotidiana del medico) richiede prima di tutto la conoscenza di questa nuova modalità terapeutica e quindi una condivisione del suo valore terapeutico, condizioni che oggi non possono ancora essere garantite proprio per la fase iniziale del suo sviluppo. Vi sono comunque già delle prime esperienze, ad esempio l’accordo tra Welion – ramo salute delle Assicurazioni Generali – e Amicomed, una società americana di terapie digitali per l’utilizzo di una terapia digitale per l’ipertensione.
Lo scenario attuale trova pazienti sufficientemente preparati, anche dal punto di vista della forma mentis, ad accogliere l’innovazione della tecnologia?
Sicuramente più di 10 anni fa. L’evoluzione del ruolo del paziente e l’evoluzione della tecnologia sono i due grandi motori del cambiamento nella gestione della salute che sta anticipando gli anni ’20. L’uno influenza l’altro, la tecnologia dà voce al paziente ed il paziente sostiene sviluppo ed applicazioni della tecnologia.
Ovviamente ci sono aspetti generazionali da considerare, per cui malattie che interessano in misura maggiore il giovane, come l’asma, saranno le prime nelle quali le nuove terapie digitali potranno essere adottate e diffuse in misura maggiore rispetto ad altre che interessano – come la Bpco – fasce della popolazione in età più avanzata.
In ogni caso, vi è grande fiducia nella salute digitale e nell’intelligenza artificiale, come ha dimostrato una recente indagine condotta proprio nel nostro Paese. Con la salute digitale gli italiani si aspettano in primo luogo facilità e velocità di accesso ai servizi e in secondo luogo una maggior sicurezza, ritenendo che la tecnologia digitale renderà più sicure attività prima soggette all’errore umano.
Il trend in atto nell’ambito della ricerca richiede un coinvolgimento attivo del paziente nella sperimentazione clinica. Come è opportuno formare il paziente?
Le malattie che interessano l’umanità sono circa 10.000 (in gran parte rare) e solo 500 di queste hanno oggi una terapia appropriata. La legge americana denominata “21st Century cures act” – approvata a dicembre 2016 e in corso di implementazione – ha l’obiettivo di rendere più efficaci e veloci la scoperta, lo sviluppo e l’introduzione nella pratica medica di risposte terapeutiche (farmaci, ma non solo) di cui i pazienti con le 9.500 malattie senza terapia adeguata hanno bisogno e che vogliono avere prima possibile.
Uno dei pilastri di questa legge, le cui ricadute interessano la ricerca condotta in tutto il mondo e non solo negli Usa, è rappresentato dal recepimento della prospettiva del paziente in tutte le fasi della ricerca e nei processi di decisione regolatoria. Questo significa, ad esempio, acquisire il punto di vista del paziente attraverso ricerche condotte usando i social media come fonte di dati. Significa soprattutto ottenere un’ampia partecipazione attiva dei pazienti nella sperimentazione clinica. Con riferimento alla sperimentazione clinica dei farmaci per le neoplasie, si stima che oggi solo il 5% dei pazienti partecipi agli studi clinici e che un paziente su due abbandoni lo studio prima del suo termine. Se si riuscisse a coinvolgere il 50% dei pazienti nella sperimentazione, senza che questi l’abbandonino precocemente, si potrebbero dimezzare i tempi dello sviluppo clinico dei nuovi farmaci.
Bisogna pertanto cercare di eliminare il più possibile i fattori che ostacolano la partecipazione e l’arruolamento del paziente nella ricerca clinica e quelli che ne determinano l’uscita anticipata, come la distanza dal centro di ricerca e le spese vive che il paziente sostiene di tasca propria per partecipare allo studio. Diviene importante informare tutte le persone sui principi e sui metodi della sperimentazione clinica, in modo che non sia vista e considerata come una pratica estranea o addirittura ostile, ma al contrario come la modalità necessaria per ottenere prima nuove cure migliori. A questo fine, un altro pilastro della nuova legge americana è rappresentato dalla modernizzazione della sperimentazione clinica, che significa adottare tecnologie digitali e nuove modalità organizzative per condurre la ricerca. Come ad esempio la sperimentazione da casa (siteless trial o virtual trial), nella quale il paziente non ha necessità di recarsi presso un centro ospedaliero con le frequenze previste dal protocollo. Grazie a sensori che registrano i dati biomedici da remoto.
Quali sono le opportunità che la figura del “paziente esperto” offre a tutti gli stakeholder del sistema?
Il coinvolgimento del paziente in attività strettamente correlate a una specifica malattia, alla definizione delle priorità della ricerca e alla sua esecuzione richiede elevata conoscenza sia della malattia e dell’area terapeutica sia della metodologia della ricerca e dello sviluppo del farmaco, e, più in generale, una preparazione del paziente tale da qualificarlo come “esperto”.
Il paziente esperto può utilizzare l’esperienza maturata e l’expertise acquisito per diverse finalità. Può per esempio operare come formatore degli operatori sanitari, e in particolare del medico in corso di laurea o in corsi di formazione post-laurea per contribuire all’umanizzazione delle cure. Può inoltre esercitare la propria attività di consulente della cura nei confronti di soggetti erogatori di assistenza sanitaria oppure partecipare come esperto nella valutazione tecnologica di interventi sanitari collaborando con agenzie di Hta.
Può, infine, operare come consulente della ricerca nei confronti di sponsor profit e no-profit o di altri soggetti interessati a livello sia individuale sia collegiale attraverso la partecipazione ad advisory board, remunerata secondo modalità analoghe a quanto avviene per l’operatore sanitario esperto.
Il settore farmaceutico e biotecnologico si sta riorientando verso lo sviluppo di “soluzioni terapeutiche” anziché di farmaci tout court. Qual è la differenza?
L’obiettivo di una terapia è ottenere il maggior risultato possibile in termini di salute guadagnata. Per molto tempo questo risultato è stato limitato a quello ottenuto dalla terapia farmacologica, utilizzando i dati della sperimentazione clinica come riferimento. L’esperienza ha dimostrato che replicare i risultati della sperimentazione clinica, che viene condotta in un ambiente creato artificialmente, nella pratica medica è difficile e spesso impossibile. Ha dimostrato, inoltre, che affiancare al farmaco altre modalità di intervento (dietetiche, fisiche, digitali) può avere effetti additivi o sinergici e aumentare l’effetto finale in termini di salute.
Da queste considerazioni è nata la ricerca di soluzioni terapeutiche che cercano di riprodurre o addirittura aumentare nella pratica medica i risultati ottenuti nella sperimentazione clinica, intervenendo sull’aderenza come nel caso della terapia digitale respiratoria o nel caso di programmi di promemoria del trattamento oppure affiancando al farmaco interventi sullo stile di vita o terapie digitali in grado di intervenire a livello cognitivo-comportamentale sulle motivazioni nei confronti della terapia che sta assumendo.
In futuro il ritorno economico prodotto dal farmaco non deriverà tanto dal numero delle confezioni vendute, quanto dal risultato di salute prodotto (value-based) e questo nuovo approccio favorirà lo sviluppo di “soluzioni terapeutiche”, a tutto beneficio del paziente.
Questo nuovo approccio può garantire la necessaria sostenibilità economico-finanziaria e l’accesso equo alle cure?
Siamo alla vigilia di un’importante evoluzione delle modalità sia di ricerca che di utilizzo delle terapie, che complessivamente possono essere descritte dal termine #pharma2020. L’ecosistema della tecnologia e della terapia sta cambiando.
Vi sono situazioni nelle quali un singolo intervento, ad esempio farmaceutico, come per alcune terapie geniche, è risolutivo. Nella gran parte dei casi, per consentire a un paziente, soprattutto con malattia cronica, di vivere nel miglior stato di salute possibile il più a lungo possibile, è necessario intervenire su diversi livelli. Innanzitutto, a livello di prevenzione, agendo sia sullo stile di vita che ricorrendo alle vaccinazioni raccomandate per la specifica condizione di malattia, quindi a livello terapeutico.
Oggi, con la terapia digitale, è possibile affiancare una nuova modalità di intervento in grado di aumentare il risultato di salute del paziente.