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La dematerializzazione della cartella clinica al Niguarda

Amministrare una struttura grande almeno quanto un paese medio della Lombardia è già di per sé una sfida non da poco per un responsabile IT e iventa quasi proibitiva quando si tratta di un ospedale, dove le normali esigenze di affidabilità e sicurezza sono moltiplicate dai fattori clinici: così si presenta l’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano, spinto dall’esigenza di dover garantire la copertura di servizi ICT a 2.500 utenti e al tempo stesso fare i conti ogni giorno con gli aspetti normativi e l’inevitabile necessità di far quadrare i conti. Il tutto spesso con una programmazione a corto raggio e un rischio sempre alto di improvvisi cambiamenti di rotta dettati dall’alto.

«Come reparto IT interno abbiamo sostanzialmente due linee organizzative con le quali dobbiamo coprire tutta la filiera, amministrava e sanitaria», spiega Gianni Origgi, direttore S.C. Sistemi Informativi Aziendali dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda. «Per prima cosa, mantenere il più possibile una guida di evoluzione su ciò che viene adottato all’interno. Quindi, il ruolo di connettore tra esigenze del cliente interno e un fornitore esterno. Si tratta di mediare, verificare la coerenza delle richieste e analizzare ogni domanda avanzata».

La forza lavoro attuale di diciassette persone permette di presidiare le varie aree di sistema, con un compito mirato. Tutta la parte operativa e di manutenzione si appoggia a provider esterni. In totale, nelle corsie dell’Ospedale Niguarda circola una cinquantina di figure specializzate.

«Contiamo su due grossi appalti principali», prosegue Origgi. «Uno per la postazione di lavoro, con un servizio erogato da Regione Lombardia, e un provider TLC al quale è affidata l’infrastruttura di rete fisica e logica, oltre al data center».

Pionieri della cartella clinica digitale

È uno scenario in cui la cartella clinica digitale ha trovato spazio da tempo, con risultati sicuramente apprezzabili, ma dove dimensioni e complessità della struttura hanno portato alla luce limiti e problemi (in parte ancora da risolvere).

«Siamo partiti intorno al 2000», ricorda Origgi. «All’epoca l’idea era sostituire il cartaceo partendo da Radiologia e Diagnostica per Immagini con l’obiettivo di accantonare lastre e pellicole. Aspetti interessanti sia per praticità interna sia per i costi».

Da subito però, non ha tardato a emergere lo scoglio principale insito nel principio stesso di cartella clinica digitale, ancora oggi difficile da superare. «Restava immutato il problema di consegnare gli esiti ai pazienti: stampare il materiale significava tornare al punto di partenza».

È venuto spontaneo pensare a un portale web attraverso il quale consegnare le immagini digitali al paziente: come prevedibile, però, questa soluzione si è scontrata con un retaggio storico legato alla conservazione dei supporti materiali e al passaggio dal paziente per trasmettere gli atti al medico curante.

Più facile, invece, seguire l’evoluzione a uso interno, dove grazie alla progressiva aggiunta di funzionalità il progetto ha preso forma, assumendo le sembianze di un vero e proprio servizio dematerializzato.

«Tra i primi passi, la lettera di dimissione, intorno alla quale si è sviluppata una sorta di sperimentazione e ha assunto i connotati di una soluzione pubblica. Nei primi dieci anni, però, ogni volta che ci confrontavamo con il mercato, mancava sempre qualcosa, quindi la priorità è rimasta sviluppare una soluzione a uso prevalentemente interno».

Dieci anni dopo l’avvio del progetto è intervenuto un importante cambiamento. A livello di Pubblica Amministrazione si è affermato il principio di studiare le esperienze positive di una struttura per trasferirle ad altre simili.

Nel caso specifico, il progetto di cartella clinica dell’Ospedale Niguarda ormai avviato viene passato all’Irccs Istituto Neurologico Carlo Besta, con benefici praticamente immediati. Subito dopo è toccato al Policlinico, mentre più di recente il progetto milanese ha varcato i confini regionali per approdare a Reggio Calabria.

«Abbiamo dovuto cambiare approccio, però, passando a una gara, con un contratto di gestione ed evoluzione. Oggi, quindi, lo sviluppo non si fa più internamente. In Lombardia, in particolare, gli scenari di integrazione sono ben delineati e certificati. In una gara, oltre al software bisogna prevedere un provider al quale affidare la gestione».

Per quanto attivo e operativo, con benefici ormai consolidati, il progetto attraversa oggi una fase particolare. La dematerializzazione ha raggiunto un livello oltre il quale è difficile spingersi. Soprattutto sul fronte clinico è emerso un aspetto difficile da prevedere e superare.

«Il processo di cura non è codificato», osserva Origgi. «Chi scrive il software non può contare su regole di riferimento valide per tutto il personale e in grado quindi di supportare un medico in fase di diagnosi. Il rischio è ridursi a un processo di data entry».

Spazi di manovra sono ancora presenti sul fronte amministrativo e su quello dipartimentale.

«In un laboratorio il workflow è molto più rigido ed è possibile indicare all’operatore come lavorare, tenere traccia e lasciare all’applicativo anche gli aspetti decisionali. Una sorta di gestionale, anche perché le procedure in questi casi sono dettate dalle normative».

Dove, invece, entra in gioco la cura del paziente, la componente di conoscenze e di abilità umana ha ancora il sopravvento. Nonostante gli sforzi per definire linee guida comuni, i risultati non si sono rivelati soddisfacenti.

Di fronte a una situazione all’apparenza simile, nella pratica è stata riscontrata una decina di atteggiamenti diversi, dove ogni medico applica la cura ritenuta più opportuna sulla base delle proprie competenze ed esperienze.

Esattamente quanto è in grado di mandare in confusione la rigidità e la sequenzialità di un sistema IT e così è successo. I primi risultati hanno prodotto soluzioni scomode da utilizzare alla prova dei fatti di scarsa utilità pratica, sia dal punto di vista delle cure sia per quanto riguarda il personale.

Una situazione aggravata da due aspetti. Il primo, la struttura sanitaria generalista. Mentre in ambienti più mirati, come per esempio la Fondazione Irccs Istituto dei Tumori di Milano, l’ambito circoscritto di manovra contribuisce a un maggiore successo di una cartella clinica digitale, il contesto generalista offre uno scenario difficile, se non impossibile, da codificare.

Inoltre, la necessità di passare da uno sviluppo interno a un fornitore esterno cambia il punto di vista, allontanandolo dalle reali esigenze della sanità per mettere al centro, invece, le regole base dello sviluppo software.

Infrastruttura IT a Niguarda

Le infrastrutture IT nel mondo della sanità lombarda stanno attraversando un momento di incertezza. Nate e cresciute nel rispetto della tradizione on site, quando ancora il cloud computing non esisteva, oggi sono a metà strada tra il rinnovamento interno e l’esternalizzazione.

Un progetto regionale lombardo prevedeva infatti il completo accentramento, in un unico data center. La decisione di procedere in proprio, allestendo quindi una struttura dedicata, ha di fatto incontrato molti ostacoli, per cui i sistemi IT restano tutt’oggi per buona parte confinati all’interno degli ospedali.

Il problema arriva nel momento in cui diventa necessario investire per aggiornare i sistemi. Fino a quando si parla di interventi soprattutto software come la virtualizzazione, anche al Niguarda si è potuto procedere senza particolari problemi. Le difficoltà si manifestano in fase di rinnovamento delle risorse e l’adozione della cartella clinica digitale contribuisce a rendere un intervento urgente. Per ora, al Niguarda la situazione resta sotto comunque sotto controllo.

Al momento conta su un data center interno, consolidato su un unico sistema. Il sistema fa riferimento a un’unica macchina virtuale, replicata su scala geografica a una certa distanza, presso la sede centrale del Policlinico e collegata con una linea in fibra ottica dedicata. In attesa di capire gli sviluppi a livello regionale, una soluzione in grado di garantire anche la ridondanza e un eventuale disaster recovery.

Tempi lunghi e costi

In situazioni del genere, la strada percorribile resta sostanzialmente una, puntare a dove si può arrivare contando sulle risorse disponibili.

«Proseguendo lo sviluppo della soluzione interna, alla fine siamo riusciti a estendere il progetto all’intero ospedale. Non risolve certo tutti i problemi, ma resta un efficiente strumento di lavoro. Non volevamo qualcosa in grado di fare tutto, ma sapevamo di poter realizzare uno strumento utile a tutti e all’occorrenza espandibile».

Anche perché, alla prova dei fatti, il modello di gara pubblica diffusa non si è rivelato così vantaggioso sotto il profilo dei costi come ci si poteva aspettare. Tra tempi della burocrazia, personalizzazioni, integrazione e avvio, poteva servire anche un anno prima di iniziare l’adozione in un solo reparto. Un fattore di latenza importante per le ripercussioni sugli aggiornamenti tecnologici, normativi e con spese inizialmente non previste o comunque difficili da stimare.

A conti fatti, adottare una cartella clinica digitale seguendo questa procedura ha un costo di un milione di euro a reparto, in rapporto alle dimensioni del Niguarda. Più ancora dell’acquisto, a pesare è la gestione, stimata in 800 mila euro l’anno.

Limiti e soluzioni

«Un altro problema emerso è il numero degli utenti. In un reparto dove operano cinquanta persone, si può arrivare a doverne gestire fino a tremila. Quando un applicativo ha un simile bacino di utenza, anche la formazione diventa un problema. È impensabile pensare a dei corsi, manca fisicamente il tempo».

L’unica soluzione è quindi trovare un applicativo con possibilità di errore prossima allo zero e talmente facile da usare da poter essere adottata nel giro di poche ore. È la strada seguita al Niguarda, dove la semplicità delle operazioni con un meccanismo di fondo comune a ogni situazione ha reso facile il compito ai clinici nel passaggio dal cartaceo al digitale.

Seguendo questa strada, cinque anni fa il progetto ha raggiunto quello considerato il proprio apice per diffusione ed efficienza. Da lì in avanti i margini di miglioramento hanno iniziato a restringersi. Andare oltre richiede infatti affrontare il nodo di codificare il modello di lavoro, rischiando di togliere spazi alle abilità personali.

Su larga scala però, anche la tecnologia manifesta alcuni limiti. «Per eliminare del tutto la carta, servirebbe uno strumento sempre affidabile e accessibile. Quindi, display abbastanza grandi, meccanismi immediati e massima affidabilità. Si parla di non più di trecento euro a utente perché sia una spesa sostenibile».

Obiettivo difficile da raggiungere con i budget attuali e priorità comunque dedicate alle cure mediche. Ancora di più considerando i problemi legati alla condivisione degli strumenti sui vari turni e nei diversi ambienti, oltre a ulteriori spese da mettere in preventivo per l’assistenza.

Tutto questo prima ancora di affrontare un altro nodo cruciale. «In materia di sicurezza, nessun dato viene salvato sulla periferica. Perfino la modalità locale solo in caso di carenze di connettività è stata abbandonata, anche solo per i problemi legati ad aggiornamento e sincronizzazione. C’è poi l’aspetto dell’autenticazione, dove noi usiamo un badge RFID».

Il forte realismo del reparto IT di Niguarda non è finalizzato a scoraggiare il prosieguo del progetto o addirittura l’adozione della cartella clinica. Al contrario, è rivolto a costruire un sistema più solido, in grado di svolgere mansioni reali, senza cedere alla tentazione di lanciarsi in progetti futuristici e poco più.

Tutta la parte dipartimentale è infatti gestita in elettronico. Informazioni cliniche, di assistenza e di cura sono dematerializzate. Resta l’ostacolo al momento insormontabile del consenso informato, dove grafometria, tavolette digitali e anche lo SPID si sono rivelati insufficienti.

Sintomo di un altro aspetto delicato, tutto sul lato utente. Serve infatti un cambio di rotta nella percezione di come usufruire dei dati. Avere materialmente in mano i propri esami non è infatti un aspetto rilevate dal punto di vista medico. L’importante è renderli accessibili a chi di dovere. Ancora oggi, in Italia questi passaggi restano affidati alla carta.

Si guardi, per esempio, la ricetta elettronica. Nonostante basti un’immagine o un codice, dalla prescrizione alla farmacia o al CUP, di fatto si procede al rilascio e al ritiro del cartaceo presso il medico di base, per recapitarlo a mano all’addetto.

«È certamente affascinante parlare di cartella clinica digitale, ma dobbiamo invece concentrarci sui servizi che oggi è possibile erogare. Dove invece non vale ancora lo sforzo, se non c’è un effetto diretto sulle cure al paziente meglio rinviare».

In definiva, attualmente tutto quanto in una struttura ospedaliera può essere ricondotto a procedure univoche, può essere digitalizzato. Nella maggior parte dei casi, è stato fatto. Resta fuori la parte legata alle cure, vincolata ancora alle capacità e alle intuizioni personali, spesso con la necessità di agire d’istinto, soprattutto nelle emergenze. Anche se in futuro un aiuto potrà arrivare da machine learning e intelligenza artificiale, oggi è decisamente prematuro pensare di affidare la cura di una persona a questi strumenti.

«La nostra esperienza ci ha insegnato l’importanza della condivisione totale delle informazioni», dice Origgi. «Prima si passavano indicazioni a voce, mentre oggi il repository digitale permette di accedere a tutti i dati in qualsiasi punto, con lo storico aggiornato. Tutti sono chiamati a contribuire, una sorta di democratizzazione del digitale con procedure operative uniformate».

I big data al servizio della sanità internazionale

Se uno dei limiti maggiori all’espansione della cartella clinica è una codifica universale per le diagnosi, una prospettiva realistica è invece allargare la visuale per offrire nuovi strumenti a chi è chiamato a prendere decisioni mediche. Applicare il principio dei big data è ormai realistico. L’Ospedale Niguarda ha così aderito a diversi studi internazionali, condividendo informazioni sui casi clinici rese anonime.

Un esempio interessante è uno studio sull’epilessia, difficile da diagnosticare fino al momento in cui si manifesta. Il progetto internazionale raccoglie informazioni diagnostiche e i dati cerebrali disponibili su tutti i pazienti, sani e malati. Grazie a un’applicazione di intelligenza artificiale ne è scaturita una serie di cluster utili a individuare associazioni. Capire cioè come una persona è arrivata alla malattia, individuare le condizioni e gli elementi da prelevare nel paziente per riuscire a ricondurlo a un cluster. Lavorando sulle quantità, si riescono a raggiungere risultati affidabili anche nelle prime versioni degli algoritmi.

«Nel momento in cui nella cartella elettronica digitale emerge un potenziale problema di epilessia, l’applicazione interagisce con il cloud per ricavare una classificazione», afferma Gianni Origgi, direttore S.C. Sistemi Informativi Aziendali dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda. «Sono ancora pochi i progetti del genere e fanno fatica a passare alla fase operativa, ma le potenzialità ci sono. Al momento manca, però, anche un’organizzazione dedicata a stabilirne l’adozione».

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