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Tecnologie in sanità: il fattore abilitante è quello umano

Chiudendo la tavola rotonda dedicata al ruolo delle app e dei dispositivi nel contesto della nuova sanità collaborativa, Eugenio Santoro, direttore del laboratorio di Informatica Medica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri – IRCCS, si è soffermato sul rilascio dell’ultima versione dell’Apple Watch.

Lo scenario era quello della presentazione del rapporto “La cura che cambia” di Nesta Italia, un evento promosso in partnership con Unicredit, WeMake e Lama, e Santoro ha avviato la sua riflessione mettendo fra parentesi ogni giudizio sul valore tecnologico in sé del dispositivo.

Perché secondo il relatore l’aspetto rilevante è un altro. E cioè che con il tuttofare da polso il marchio californiano ha saputo mettere al centro della sua ricerca gli obiettivi di outcome traendone vantaggio e al tempo stesso generando benefici concreti per gli utilizzatori.

Tre sono le caratteristiche chiave che un oggetto di questo tipo deve necessariamente possedere per poter essere ritenuto valido dal punto di vista scientifico. Deve nascere dalla ricerca e, nel caso dell’Apple Watch, il percorso ha avuto una durata triennale sfociando altresì nella pubblicazione di articoli a tema su testate internazionali di comprovata autorevolezza. In più, deve essere frutto della collaborazione e del confronto con le società scientifiche, in linea con una metodologia che forse in Italia trova ancora pochi riscontri.

Non ultimo, fra gli interlocutori le aziende produttrici devono annoverare enti e organismi specializzati nei processi di certificazione e regolamentazione. Ottemperare a tutti i desiderata elencati qui sopra serve per dimostrare la superiorità dell’hi-tech rispetto agli strumenti della medicina tradizionale.

La sanità è partecipazione

C’è però un ulteriore fondamentale dettaglio, che in fondo ha rappresentato il leitmotiv del convegno milanese e del report che lo ha ispirato. L’esponente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri – IRCCS si è basato su indagini compiute presso ben 300 associazioni di ambito sanitario per arrivare a concludere che per il paziente medio l’utilizzo di dispositivi (indossabili e non) è un supporto essenziale. Lo stesso può dirsi delle applicazioni che gli consentono di accedere a informazioni e servizi; oppure di aiutarlo nelle fasi del follow-up terapeutico, con lo scopo di osservarlo fedelmente.

Soprattutto, però, le persone «chiedono di essere coinvolte nel processo di cura» e in quello di sviluppo delle tecnologie che mirano a migliorare la loro quotidianità. Al contrario, questo coinvolgimento è tuttora spesso carente, così come il dialogo con l’associazionismo. Così, sovente le soluzioni implementate sono lacunose dal punto di vista delle interfacce e il problema si somma a un’altra criticità.

Che i dati raccolti sono percepiti come poco affidabili perché letti, utilizzati e rielaborati in maniera poco vantaggiosa per gli utenti. Questo riporta al passaggio iniziale, ovvero all’imprescindibilità di una ricerca clinico-scientifica solida. L’occhio del paziente e la sua esperienza diretta che diventa di per sé capacità di inventare soluzioni concrete sono linfa vitale del progetto Hackability illustrato a La cura che cambia – Pratiche e cultura di salute collaborativa in Italia da Carlo Boccazzi Varotto, cofondatore.

«Una ricerca condotta direttamente nelle case di cento individui diversamente abili nella provincia di Torino – ha detto – ci ha permesso di scoprire che questi disabili sono spesso veri e propri designer che modificano a loro beneficio gli oggetti del quotidiano per potersene servire comodamente. E trovano così da sé le soluzioni che il mercato non sa offrire loro».
Perché naturalmente molti degli escamotage escogitati sarebbero antieconomici da produrre per i grandi vendor e perché spesso d’altra parte il design, anche quando si indirizza alle situazioni di disagio, tende ad avere costi al dettaglio decisamente elevati, se non proibitivi.

Fuori dall’angolo

Nella prospettiva di chi – come i pionieri di Hackability – rifletteva su come gestire il passaggio da una fase marcatamente e giocoforza artigianale all’industrializzazione il rischio era che i disabili fossero in certa misura messi all’angolo e trascurati in sede di sviluppo.

Secondo Boccazzi Varotto quel che mancava era una metodologia di lavoro robusta e riproducibile, tale in primo luogo da creare un rapporto paritario fra maker e fruitori, con la finalità specifica di realizzare articoli dal costo contenuto. Con il tempo l’idea si è trasformata in un format con gruppi locali attivi oltre che a Torino anche a Cuneo e Parma.

Il primo appuntamento tematico che ha radunato nel 2015 sotto la mole quasi 90 partecipanti è stato la scintilla di una serie di altri eventi di community engagement, di condivisione e di ideazione. Il paradigma di sviluppo adottato prevede il riconoscimento ai designer e ai soggetti disabili di un diritto commerciale sui loro prodotti e i vari gruppi si finanziano con programmi di open innovation.

La visibilità e il successo di Hackability sono tali che le sue menti sono ora state chiamate a lavorare al miglioramento degli accessi dello Allianz Stadium di Torino (per intenderci quello della Juventus) e a cooperare con altri grandi marchi. Là dove l’importanza di Hackability si rivela al suo massimo grado è quando vi vengono coinvolti gli studenti delle scuole. Perché nell’opinione del co-founder è qui che i rapporti fra le persone, fra cosiddetti disabili e cosiddetti normodotati, risultano completamente ribaltati. In generale, l’impressione è che tutto funzioni meglio e colga nel segno nei luoghi in cui si avverte fortemente la presenza di una comunità. I piccoli paesi o università come il Politecnico di Torino, col quale non a caso Hackability lavora frequentemente, con profitto.

In linea con il dottor app

Le tecnologie digitali possono offrire opportunità importanti di razionalizzazione dei costi al Sistema sanitario nazionale, che è alle prese con risorse pressoché stabili e un aumento sensibile delle cronicità. Innovazione di processo e tecnologica per efficacia ed efficienza, insieme alla formazione degli operatori e all’empowerment (acquisizione di capacità e consapevolezza) dei cittadini-pazienti: queste sono alcune delle leve che potrebbero ridurre il gap tra risorse e bisogni nella visione di Chiara Sgarbossa, direttrice dell’Osservatorio sull’Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano. A un patto. Che i cittadini siano resi il più possibile partecipi dello sviluppo tecnologico e lo interpretino come qualcosa di realmente utile e facilmente accessibile.

A oggi, infatti, i cittadini utilizzano ancora poco i servizi digitali messi a disposizione, per esempio, dal Fascicolo Sanitario Elettronico regionale. Lo dicono le statistiche che Doxa Pharma ha elaborato per conto dell’Osservatorio stesso e stando alle quali la maggior parte dei servizi (fra questi la prenotazione di visite ed esami) sono tuttora gestiti per lo più di persona o telefonicamente. Lo stesso utilizzo delle app di monitoraggio dello stile di vita o dei parametri vitali è limitato, anche perché limitata è la percentuale dei medici in grado di interpretarne i dati correttamente. Sono ancora poco diffuse le soluzioni in grado di leggere i dati e fornirne un’interpretazione e «un modello di remunerazione che guidi la diffusione di app mediche in sanità».
Whatsapp ha fatto breccia anche fra i medici di medicina generale (63%) e tra gli specialisti (52%), per i quali è divenuto ormai un canale di comunicazione abituale con i pazienti, per fissare appuntamenti o dare consigli.

I fattori abilitanti

Le esperienze descritte e i riscontri da esse via via ottenuti paiono confermare la visione di Elena Como, research & innovation area manager dell’Agenzia Lama, che in apertura di dibattito ha parlato di tre insiemi di fattori abilitanti le strategie di sanità collaborativa. Cioè le tecnologie – dai dispositivi indossabili alla realtà virtuale o aumentata e dall’intelligenza artificiale alla domotica – insieme alle persone e ai processi. La medicina narrativa e il supporto peer-to-peer o dei pazienti esperti; gli educatori di comunità e le piattaforme di auto-aiuto sono esempi del ruolo degli individui e del valore delle comunità umane.

D’altra parte, sul versante dei processi, perché tutto questo funzioni si devono ripensare le organizzazioni e i modelli di governance, aprendoli all’innovazione aperta; alla condivisione. Innovazione aperta e spontanea nata dal basso è quella presentata dalla soluzione Amyko, scaturita dalla presa di coscienza di quanto fosse difficile tenere traccia delle vaccinazioni compiute per un viaggiatore frequente, quale il chief operating officer Riccardo Zanini.

È la dimostrazione di quanto la documentazione sanitaria sia sovente frammentata così come frammentati sono le piattaforme e i sistemi di gestione in dotazione agli ospedali italiani. L’uovo di Colombo di Amyko è stato rendere il paziente responsabile o corresponsabile di un fascicolo sanitario elettronico sui generis.

Viene compilato direttamente dai pazienti che tramite un dispositivo indossabile (un braccialetto, per esempio, ma il supporto potrebbe variare) che è la chiave di apertura di una app registrano poi su cloud i dati personali anamnestici o relativi al follow-up e alle prescrizioni, a uso proprio o dei familiari e assistenti a domicilio. Non si tratta, come Zanini ha chiaramente spiegato, di un duplicato della cartella clinica digitalizzata, per il fatto stesso di essere amministrata dai malati e dalle persone loro vicine, ma anche per i suoi tratti salienti di usabilità e la capacità di integrare informazioni in arrivo da fonti diverse la cui affidabilità e veridicità è garantita dal sistema della blockchain.

Accettare l’inaccettabile

La valorizzazione delle competenze individuali in vista del pieno (re)inserimento nel mondo dello studio, del lavoro e in ultima istanza di una normale quotidianità è a maggior ragione l’obiettivo numero uno da perseguire per chi si occupa di malattia o disturbo mentale. Il tema è caldo e devastante è il suo impatto sociale, calcolando che secondo studi dell’Università di Tor Vergata di Roma i costi riconducibili alla sola schizofrenia in Italia ammontano a più di 3 miliardi.

Sebbene un disturbo interessi un quinto degli adolescenti questo genere di problematica può dirsi ancora tabù e anzi un evento inaccettabile nella vita di un soggetto e di una famiglia. Tant’è che i dati sulla continuità terapeutica sono drammatici, viste le percentuali vicine al 40% di abbandono delle cure nel medio-lungo periodo, con tutte le conseguenze del caso.

Progetto Itaca, facente capo all’omonima fondazione attiva dal 1999 e rappresentato a la cura che cambia dal direttore Francesco Baglioni, punta sull’approccio peer-to-peer, di tutoraggio fra pari con il supporto di un paziente esperto, per cogliere il traguardo dell’inclusione sociale. La costruzione della consapevolezza e quindi lo empowerment dei soggetti avviene con il contributo e la spinta di una molteplicità di forze: dagli assistenti alle famiglie, ad altri malati appunto, con esiti terapeutici mostratisi sin qui superiori a quelli delle strategie tradizionali. Il paradigma è stato mutuato dall’esperienza statunitense di Nami (National Alliance on Mental Illness, Alleanza Nazionale per la Malattia Mentale) e si è diffuso nella Penisola dal 2010. Lo scorso anno il Progetto Itaca ha formato qualcosa come 660 volontari e 260 familiari agevolando altresì ben 50 contatti di lavoro e 670 colloqui per l’orientamento alla cura.

«Hackability, Progetto Itaca, Amyko e tutti gli esempi di salute collaborativa inclusi nel rapporto La cura che cambia, liberamente scaricabile dal nostro sito, hanno la caratteristica – ha detto Simona Bielli, Head of Programmes di Nesta Italia – di responsabilizzare l’individuo nel percorso di cura, riconoscendone maggiore autonomia e valore. Le esigenze della persona e della comunità sono sempre al centro e il paziente è coinvolto attivamente, dalla fase iniziale di creazione della soluzione a quella di cura vera a propria, a prescindere che si parli di soluzioni tecnologiche, di comunità o di open care. Questi gli aspetti d’innovazione che differenziano la salute collaborativa dal sistema di cura tradizionale e che, coi partner, vogliamo far emergere con un lavoro condiviso di ricerca».

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