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A che punto è la Cartella Clinica Digitale

L’enorme macchina della digitalizzazione all’interno della sanità si è ormai messa stabilmente in moto anche in Italia. I risultati non mancano e le situazioni alle quali ispirarsi neppure. Proprio per la natura della sfida, però, la strada è ancora molto lunga e soprattutto per questo, sotto certi punti di vista, la situazione può apparire deficitaria.

Per tracciare un quadro completo della situazione, un valido supporto è il più recente Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano.

Dalla ricerca, infatti, spicca una crescita del 7% nella spesa per la Sanità Digitale in Italia, raggiungendo un valore di 1,39 miliardi di euro e consolidando una tendenza iniziata l’anno precedente, quando l’aumento era stato del 2%.

Un altro aspetto interessante è la varietà delle soluzioni adottate e la loro portata, intesa come estensione del bacino di utenza. Non si parla, infatti, solo di strumenti e applicazioni a uso degli addetti ai lavori. Le ripercussioni, infatti, arrivano a coinvolgere anche il paziente.

L’esempio più concreto è, l’avanzata degli strumenti di base, e-mail e WhatsApp nei rapporti con il medico di base: l’85% dei medici di Medicina Generale e l’81% degli specialisti utilizza la mail per inviare comunicazioni ai pazienti, mentre WhatsApp è usato dal 64% dei primi e dal 57% dei secondi per fissare/spostare appuntamenti e condividere documenti o informazioni cliniche.

Meno di un cittadino su cinque, invece, usa e-mail o WhatsApp per comunicare con il proprio medico, solo il 23% prenota online una visita specialistica e appena il 19% effettua il pagamento sul web.

Strumenti certamente non certificati, quindi da utilizzare con la dovuta cautela soprattutto da parte degli specialisti, ma anche interessante veicolo per spingere la digitalizzazione e aiutare a vincere le perplessità di abbandonare i supporti fisici.

Luci e ombre della Cartella Clinica Digitale

Uno scenario dove, rispetto a qualche anno fa, la spinta digitale nella sanità sembrava partire dalle strutture, la situazione appare quasi invertita.

«Nella diffusione della Cartella Clinica Digitale rileviamo ormai buoni livelli di presenza in tutto il territorio nazionale», osserva Chiara Sgarbossa, direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano. «Se però entriamo nel dettaglio e guardiamo alle funzionalità, diverse faticano ancora a diffondersi».

Chiara Sgarbossa

Se, da una parte diagnostica per immagini e dati riferiti al paziente in occasione dei ricoveri sono quasi la regola, gli altri aspetti destinati a completare il quadro e rendere veramente efficiente la digitalizzazione sono trascurati.

«Soluzioni di prescrizione e somministrazione farmaci con relativo dosaggio sono poco presenti nella Cartella clinica» prosegue Sgarbossa. «Permetterebbero a medici e infermieri di mantenere la situazione sotto controllo e seguire meglio il percorso di un ricovero, eppure restano poco sfruttate».

In pratica, se visto dall’esterno il quadro della Cartella Clinica Digitale, inteso come esistenza di un progetto all’interno di una struttura sanitaria, è una realtà diffusa, quando si entra nel dettaglio e si analizza la qualità dei lavori, in realtà emergono tutte le lacune di dover intervenire su un sistema complesso e articolato.

Per ragioni tutto sommato banali, ma al tempo stesso così radicate da risultare molto difficile riuscire a vincerle.

«Storicamente, le resistenze sono sul lato utente. Il personale prima di tutto, abituato a usare la carta e restio a cambiare modi di operare inserendo dati in un software. Si tratta, tuttavia, delle negatività tipiche di un qualsiasi progetto di cambiamento, da affrontare per tempo prima di vederle tradursi in ostacoli».

Sarebbe, tuttavia, ingiusto scaricare ogni colpa sugli utenti finali. Stravolgere abitudini di lavoro in uso da anni non è facile, soprattutto quando viste come attività complementari al compito principale di assistere un paziente. Le responsabilità vanno equamente divise anche con chi è chiamato a gestire la transizione, senza imporla.

cartella clinica

Serve un nuovo punto di vista

«Anche il mondo IT deve cambiare approccio. Nel momento in cui si avviano iniziative destinate a interagire con un utente, quest’ultimo deve essere il centro della progettazione. Deve partire dalle sue esigenze, bisogna coinvolgerlo sin dalle prime fasi e sviluppare la soluzione insieme».

Riemerge, quindi, un messaggio ormai diventato d’attualità. Per troppo tempo, i progettisti software hanno sviluppato applicazioni pensate senza tenere in considerazione l’utente, ma dando la priorità agli aspetti tecnici. Il risultato sono spesso programmi difficili da imparare, in grado di scoraggiarne l’adozione al punto da cercare di evitarlo appena possibile.

«Può sembrare banale, eppure fino a oggi non si è pensato di coinvolgere medici e infermieri nella progettazione. Spesso è ancora il reparto IT a scegliere o sviluppare una soluzione sulla base di requisiti tecnici, per poi imporla al personale. D’altra parte, non è neppure facile assecondare tutti i medici, con talmente tanti punti di vista e talmente tante esigenze da risultare difficile integrarle in un’unica soluzione».

Senza voler quindi passare da un eccesso all’altro, la soluzione ideale si trova come sempre in una via di mezzo. Punto di incontro però molto dipendente dalla singola realtà e quindi difficile da indicare per via generale.

«Nel momento in cui parte un progetto di cartella clinica digitale è importante formare subito dei tavoli di lavoro con le diverse professionalità presenti in azienda. Informatici e clinici, ma anche amministrativi e il direttore sanitario. Far sì, in sostanza, di superare le vecchie procedure top-down, di soluzioni imposte dall’alto, in favore di un lavoro bottom-up, costruito su fondamenta più ampie e su spirito collaborativo».

Gli esempi positivi non mancano. Chi infatti ha accettato il confronto ha già raggiunto risultati importanti. Se questa strategia richiede qualche passaggio in più nella prima fase, d’altra parte la messa in opera e la diffusione possono rivelarsi decisamente più rapidi ed efficaci.

«Ho seguito il caso dell’ASST di Vimercate», spiega Sgarbossa. «Lì effettivamente sono arrivati alla dematerializzazione totale, adottando anche strumenti mobili a supporto degli utenti. Si salta il passaggio di trascrivere i dati a un pc, inserendoli direttamente di fronte al paziente. Il supporto mobile si è rivelato un passaggio fondamentale».

Il valore aggiunto di dati di qualità

Anche perché solo con dati completi e attendibili, intesi come riguardanti tutti i pazienti ricoverati in un ospedale, si può guardare ai passaggi successivi. Una base di dati di qualità permette di raggiungere livelli superiori, di analytics e intelligenza artificiale, dai quali ricavare supporto per cure personalizzate.

Rimane però ancora un livello dove neppure l’intelligenza artificiale può rivelarsi d’aiuto. Almeno, per quanto riguarda le conoscenze attuali. Le diagnosi dipendono per buona parte dall’esperienza personale di un medico e risultano quindi molto difficili da codificare.

«Sulla base degli stessi dati, diversi medici possono arrivare a diagnosi diverse», ammette Sgarbossa. «In questo caso il digitale non può ancora andare oltre il semplice supporto, uno strumento in più per arrivare alla decisione finale. C’è comunque un buon interesse nei confronti dell’intelligenza artificiale, non è certamente vista come una minaccia».

Anche in questo caso i campi d’applicazione già sperimentati con successo non mancano. Nella diagnostica per immagini, per esempio, la presenza di problemi è rilevata con la dovuta affidabilità. Oppure, soluzioni in grado di analizzare un linguaggio ed elaborare indicazioni in base ai referti. In prospettiva, sollevano interesse le potenzialità di integrare nelle soluzioni il riconoscimento vocale, da combinare all’analisi di un testo. Soluzioni in grado di offrire nuove funzionalità sfruttando comunque strumenti abituali per i clinici.

Dove la digitalizzazione arranca

Il quadro complessivo tutto sommato incoraggiante per la Cartella Clinica Digitale segna, invece, il passo su quello almeno in teoria inquadrato come il passaggio successivo. Se da una parte, infatti, almeno l’impegno non manca, quando si parla di Fascicolo Elettronico Digitale le difficoltà hanno ancora il sopravvento.

«Dovrebbe contenere l’intera storia clinica di un paziente, non solo quella riferita a un ricovero. Ogni realtà produttrice di documenti deve essere connessa. Dal medico di base alle vaccinazioni, fino a gestire prenotazioni e ricette».

Sviluppato su base regionale e successivamente interconnesso, in realtà il Fascicolo è una realtà in quasi tutte le Regioni italiane, con la sola eccezione della Calabria. A parte i casi di Lombardia, Trento, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta, l’adozione prosegue però a rilento. Più di problemi tecnici, l’ostacolo in questo caso è proprio la scarsa conoscenza. I cittadini stessi ignorano l’esistenza e di conseguenza le possibilità.

Nel complesso, però, il quadro generale presenta diversi aspetti positivi. Le difficoltà affrontate dalla Cartella Clinica Digitale sono per buona parte dovute a progetti in corso d’opera. Quindi, in una fase successiva alla semplice pianificazione e soprattutto con risultati già apprezzabili. Altro aspetto da ribadire, con la messa a punto di strategie dedicate, a partire dall’inversione di tendenza nell’abbandonare una ricerca suddivisa per competenze in favore invece di percorsi condivisi.

La voglia di investire non manca

Considerazioni che si rispecchiano nello studio del Politecnico di Milano. Nel 2018 sono stati proprio i sistemi dipartimentali e la Cartella Clinica Elettronica gli ambiti di innovazione digitale capaci di raccogliere i budget più elevati, rispettivamente 97 e 50 milioni di euro. Inoltre, considerati prioritari dalle strutture sanitarie (indicati rispettivamente dal 50% e dal 58% delle aziende), mentre inizia a prendere piede l’intelligenza artificiale, con circa 7 milioni di euro di risorse stanziate e il 20% dei direttori sanitari che la ritiene rilevante.

Nel complesso, la spesa per la Sanità Digitale nel 2018 è cresciuta del 7%, raggiungendo un valore di 1,39 miliardi di euro. Un segnale forte di voler intervenire strutturalmente sul settore, dopo l’avanzamento del 2% registrato l’anno precedente.

Sono le strutture sanitarie a sostenere la quota più rilevante della spesa, con investimenti pari a 970 milioni di euro (+9% rispetto al 2017), seguite dalle Regioni con 330 milioni di euro (+3%), dai medici di Medicina Generale con 75,5 milioni (+4%), pari in media a 1.606 euro per medico, e dal Ministero per la Salute con 16,9 milioni di euro (contro i 16,7 milioni nel 2017).

Ormai, la maggior parte delle aziende sanitarie è dotata di un supporto informatico diffuso, vale a dire esteso a oltre il 60% delle attività, per diagnostica per immagini (88%) e analisi di laboratorio (86%), mentre la gestione delle attività di sala operatoria risulta ancora in via di diffusione (63%), nonostante sia un ambito con un forte impatto sulla sicurezza del paziente.

I contenuti multimediali gestiti in digitale con più frequenza sono quelli relativi alla radiologia (con l’84% delle aziende che ha digitalizzato oltre il 60% delle immagini prodotte), con tassi di diffusione che, però, si riducono per le ecografie (40%) e i tracciati ECG/EEG (33%), fino ad arrivare a limitate esperienze di gestione in modo integrato in digitale anche dei video di sala operatoria (7%).

«Le nuove tecnologie devono essere impiegate per riprogettare l’esperienza degli utenti affinché possano accedere più facilmente e velocemente a informazioni e servizi secondo modelli di cura innovativi e sostenibili», conclude Chiara Sgarbossa. «È importante riuscire a superare barriere e diffidenze, riconoscendo la specificità dei diversi profili di cittadini e progettando percorsi differenziati in grado di superare il potenziale digital divide, che rischierebbe di escludere proprio quelle fasce di popolazione che hanno maggiore bisogno di sostegno».

Wearable in cerca di credibilità

In uno scenario di digitalizzazione della sanità, finora il vero protagonista, il paziente, resta in genere fuori da ogni decisione e scarsamente coinvolto. Tra Cartella Clinica Digitale e Fascicolo Sanitario Elettronico, il suo contributo è limitato a prenotazioni di visite o interazioni con il medico di base.

C’è, però, una sorgente di dati prodotti direttamente dalla persona e potenzialmente molto importante dal punto di vista dell’analytics e delle cure personalizzate. Si tratta dell’enorme quantità d’informazioni prodotte ogni giorno da app e wearable.

Secondo il lavoro del Politecnico di Milano, il 41% delle persone utilizza un’applicazione di coaching o un dispositivo indossabile per il monitoraggio dello stile di vita. In prevalenza (55%), persone sotto i 35 anni contro il 29% di diffusione tra gli over 55. Lo strumento più presente è lo smartwatch, utilizzato da un cittadino su tre, con un vero e proprio boom rispetto all’8% registrato nel 2018. Tuttavia, ben il 75% dei cittadini che usa le app non invia né comunica al proprio medico i dati raccolti, che rimangono quindi spesso inutilizzati.

Il vero problema, però, è l’attendibilità di queste informazioni, ancora molto limitata.

«In teoria, non c’è nessuna difficoltà a inserirli in un Fascicolo», spiega Chiara Sgarbossa, direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano. «Il problema, però, sono le certificazioni. Se si esclude la funzione ECG di Apple Watch, praticamente assenti in Italia».

 

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