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Intelligenza artificiale all’Istituto Auxologico

Intelligenza artificiale e medicale, un connubio di cui sempre più spesso si parlare perché la tecnologia può essere di grande aiuto al mondo della medicina: e abbiamo parlato con Alberto Ronchi, vicepresidente Aisis e direttore dei Sistemi Informativi dell’Istituto Auxologico Italiano.

«Oggi nel nostro Paese non si stanno ancora facendo molte sperimentazioni in tema di intelligenza artificiale – ha sostenuto Ronchi -. Se ci limitiamo al machine learning, che comunque è la tecnologia più affidabile, occorrono enormi quantità di dati per l’addestramento e molte volte questi dati non sono disponibili per la singola struttura di lavoro. Si tratta di un’attività che dovrebbe essere svolta a livello regionale o nazionale».

Nonostante ciò, sono in atto alcune sperimentazioni di rilievo, come quella dell’Istituto Clinico Humanitas per il Pronto Soccorso, che si basa sul sistema di intelligenza artificiale Watson di Ibm, o come quella del reparto di Radiologia della Fondazione Salvatore Maugeri che, nonostante i numeri bassi, ha dato risultati promettenti.

«Per aumentare la percentuale di accuratezza e arrivare a risultati che possano davvero aiutare il radiologo – ha detto il direttore IT di Auxologico – occorrerebbe diffondere questo sistema attraverso una cooperazione a un livello superiore e non di singolo istituto. Tuttavia, anche in quest’ambito è ancora necessaria la presenza del radiologo esperto perché i tassi di successo, pur essendo promettenti, non sono sufficienti. Siamo infatti a una percentuale di successo attorno al 90%: è elevata ma non è abbastanza».

In tema di intelligenza artificiale, l’Istituto Auxologico Italiano ha fatto una prima sperimentazione in un ambito piuttosto inusuale: la “pulizia” dell’anagrafica.

«Si tratta di un tema delicato perché è fondamentale identificare in maniera corretta il soggetto delle cure – ha affermato Ronchi -. In quest’ambito, con il machine learning abbiamo ottenuto buoni risultati operando su un database di 10 milioni di pazienti. L’esperimento è stato utile per cercare di capire se sia possibile utilizzare intelligenza artificiale e machine learning al di fuori dell’ambito tradizionale».

Dove si usa l’Intelligenza artificiale nel medicale

In questo momento l’impiego dell’Intelligenza artificiale nel medicale è focalizzato essenzialmente su due aree principali. La prima è quella dell’imaging: l’intelligenza artificiale è particolarmente adatta ad aiutare a riconoscere le immagini, specialmente in un setting come quello clinico dove non c’è rischio di avere immagini artefatte o finte con il pericolo di confondere l’algoritmo. La seconda area nella quale è stata provata l’Intelligenza artificiale con grande utilità (soprattutto negli Stati Uniti, ma non ancora in Italia) è nell’assistenza alla diagnosi, come per esempio nell’oncologia.

«C’è però da sottolineare – ha evidenziato Ronchi – che mentre nel caso dell’imaging l’Intelligenza artificiale ha un costo abbordabile, quella adottata da Watson ha costi più elevati e non molto accessibili per aree meno critiche. Tuttavia, l’oncologia è un’area critica, quindi l’Intelligenza artificiale potrebbe avere buoni ritorni economici e perciò giustificarsi perché si accompagna a una maggiore cura del paziente e a un minore rischio clinico. Questi aspetti possono motivare l’investimento rispetto ad altre aree, come per esempio una semplice assistenza alla diagnosi dove occorre valutare se la spesa è sostenibile sia da parte del singolo sia a livello regionale e nazionale».

Al momento l’intelligenza artificiale non ha ancora un grosso impatto sui sistemi informativi delle strutture sanitarie perché il suo impiego è limitato a sistemi di nicchia di assistenza e di ausilio.

«Non ha ancora raggiunto quell’importanza e quel ruolo che potrebbe essere sostitutivo del medico – ha precisato Ronchi – per cui è difficile pensare che possa venire incorporata in modo automatico in un sistema informativo ospedaliero. Possono però essere eseguite efficaci integrazioni se si ha budget o se si sta puntando esclusivamente su alcune aree, come per esempio lo screening mammografico, dove l’Intelligenza artificiale può alleggerire i radiologi dalle doppie o triple letture».

Il nuovo ruolo dell’IT in sanità

L’invecchiamento della popolazione genera un alto costo per il sistema sanitario perciò si sta tentando di cambiare l’offerta sanitaria, perché la spinta demografica e quella economica portano a cercare di contenere i prezzi modificando il modello di cura, ora basato fondamentalmente sull’acuto, spostandolo verso quello basato sul cronico.

«Le nuove tecnologie e i nuovi metodi di cura impongono un modello strategico dell’healthcare nell’erogazione della cura da parte dei sistemi sanitari. L’It si inserisce in questa erogazione perché mette l’accento sul valore strategico dell’informatica e non tanto sul valore tecnologico e strumentale. Purtroppo, però, in molte Regioni italiane la posizione politica di assessorati e direzione generale è di appiattire l’It sul valore tecnologico, strumentale e infrastrutturale e di non valorizzarne a sufficienza l’aspetto strategico. Non esiste, al momento, una modalità unica di guardare all’Intelligenza artificiale. Oggi nel 95% dei casi l’Intelligenza artificiale è machine learning, in sostanza reti neurali che apprendono. C’è una discreta parte di teorici che ritiene che l’Intelligenza artificiale sia più ampia e le reti neurali siano solo uno degli strumenti. Il machine learning ha grandi potenzialità e le sta dimostrando, ma in molti si stanno chiedendo quali potrebbero essere i limiti di questo approccio. Al momento serve però un livello di skill relativamente alto e rischiamo di avere pochi superesperti custodi dei misteri eleusini. L’addestramento richiede comunque grandi data center e questo può generare un problema perché la domanda ci porterà ad avere poche aziende che dominano i grandi data center».

L’Internet of Things entra in ospedale

Un altro argomento di attualità è quello dei dispositivi legati al mondo dell’Internet of Things. A che punto siamo a livello italiano?

«In ambito sanitario, l’IoT non è una novità – sostiene Ronchi – ma praticamente è sempre esistito perché il paziente è sempre stato collegato a molteplici sensori connessi alla rete dell’ospedale. Però quello che in Italia e in Europa non si fa, al contrario di quanto sempre più spesso accade negli Stati Uniti, è avere questi sensori collegati a Internet. Da noi i dispositivi restano collegati alla rete ospedaliera, un po’ per problemi di sicurezza e un po’ perché non è poi così necessario averli collegati a Internet: nessun medico monitorerebbe un paziente in Terapia Intensiva al di fuori dell’ospedale».

Un aspetto dell’IoT su cui il responsabile di Auxologico ha messo l’accento è la sicurezza. A riguardo ha detto: «la superficie di attacco di questi dispositivi collegati in rete è vasta e sono estremamente vulnerabili, perché sia l’IoT sia i sistemi medicali hanno standard di sicurezza molto bassi.
Fondamentalmente il mercato IoT è nato per il consumer senza pensare alla sicurezza.

Solo di recente con i continui hackeraggi delle telecamere e dei sistemi d’allarme si sta cercando di porre rimedio. Lo stesso discorso vale per i dispositivi medici: si valutano altri aspetti come la correttezza e l’affidabilità dei dati forniti ma non la sicurezza.

Da qui la scelta dell’Istituto Auxologico di non usare questi device. Altre strutture sanitarie hanno adottato sistemi di monitoraggio del paziente ma per l’invio dei dati non c’è una connessione continua: si collega il paziente a Internet sporadicamente e si inviano i dati. A tutt’oggi strutture sanitarie in Italia che espongono all’esterno i dispositivi medici non esistono anche perché sono lontani dalle reali necessità».

Non va però sottovalutato il fatto che questi dispositivi generano anche una grossa mole di dati.

«È vero, ma poi non vengono gestiti – ha sottolineato Ronchi. – Durano solo l’episodio di cura, poi non si fa una conservazione per motivi di ricerca in quanto, per motivi relativi alla privacy, richiederebbero il consenso del paziente per la conservazione. In futuro, però, considerato che si cercherà sempre più di accumulare dati incentrati sul paziente, si potranno anche raccogliere. Il punto è che l’IoT in certe aree sta diventano pervasivo, ma il wearable sta crescendo troppo lentamente. La frammentazione degli standard è ancora una realtà e per i produttori la sicurezza non è senz’altro tra le prime preoccupazioni».

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